Nel
corso del dibattito si è messa in luce la natura duplice della crisi
mediorientale in corso. Da una parte la comparsa dello Stato Islamico
(meglio noto come Isis) e gli obiettivi strategici che sembra essersi
dato rappresentano una sfida esplicita all’ordine geopolitico
imposto alla regione dalle potenze imperiali britannica e francese
con gli accordi Sykes-Picot (1916); in particolare, la formazione
guidata dall’autoproclamatosi califfo Abu Bakr al-Baghdadi sembra
eversiva delle logiche politiche e diplomatiche entro cui i vari ed
eterogenei eredi dell’Impero Ottomano, insieme all’Iran, si sono
trovati ad operare sotto quell’ordine artificioso di stati-nazione
mancanti e per lo più mancati. Dall’altra, se è vero che lo Stato
Islamico ha potuto prosperare e rendersi autonomo solo nel caos
generato in Siria, principalmente, dalla pessima gestione delle
proteste popolari del 2011 da parte del regime alawita di Bashar
al-Assad, e in Iraq dal settarismo elevato a sistema dal premier
sciita Nouri al-Maliki – nonché in generale nel clima di profondo
abbrutimento politico in cui il Medio Oriente è stato posto dalle
scelte più sconsiderate della politica estera statunitense relativa
all’area – esso è anche il frutto dello scontro regionale, in
atto fin dal 1979, tra l’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica
d’Iran.
Lungi
dall’essere riassumibile e spiegabile come espressione della
rivalità tra musulmani sunniti e sciiti (di cui rispettivamente
Riyad e Teheran si propongono o sono percepite come rappresentanti),
né come più recente sintomo del dissidio tra le componenti araba e
persiana dell’Islam che si è diffuso e stabilito in Asia
occidentale, tale scontro ha una dimensione geopolitica fondamentale:
in sostanza, sauditi e iraniani si contendono, con il controllo del
Golfo, l’egemonia sull’intera area. In questo senso, la mezzaluna
(sciita) di influenza che la diplomazia di Teheran, negli ultimi
anni, ha saputo estendere dal basso Libano di Hezbollah alla Baghdad
sciita di al-Maliki, passando per Damasco, rappresentava e continua a
rappresentare una grave minaccia per l’Arabia Saudita, che almeno
in un primo momento sembra aver sostenuto gli estremisti sunniti di
al-Baghdadi, prevalentemente in chiave anti-Assad. Di contro, non si
fa mistero della presenza, almeno in territorio iracheno, di reparti
delle Guardie rivoluzionarie iraniane impegnate, insieme ai loro alti
ufficiali, nei combattimenti contro le milizie del califfato.
Nella
misura in cui l’Iran appare un attore di primaria importanza nella
risoluzione della crisi mediorientale, si pone il problema dei
rapporti diplomatici tra Teheran e le cancellerie occidentali, in
particolare gli Stati Uniti, ovvero delle relazioni privilegiate che
queste intrattengono con paesi – Arabia Saudita e Israele – da
cui l’Iran è considerato una grave minaccia e della questione da
cui tali rapporti al momento sembrano dipendere principalmente:
quella del nucleare iraniano. Le volontà
contrapposte
di impedire a Teheran di arricchire l’uranio al punto di dotarsi,
più o meno rapidamente, di un arsenale nucleare, e quella di
emancipare il paese dalla pericolosa dipendenza energetica dai pur
abbondantissimi idrocarburi, sembrano tuttora in grado di rallentare
o addirittura compromettere l’elaborazione di una soluzione
soddisfacente per tutti i partner coinvolti in una crisi diplomatica
che, col corollario di pesanti sanzioni che ha comportato,
contribuisce non poco a destabilizzare l’Iran anche e soprattutto
sul piano della politica interna, vitale perché il paese possa
assumersi le sue responsabilità di potenza regionale in un contesto
di ritrovata credibilità internazionale.
Oltre
a mettere in maggiore evidenza la dialettica geopolitica Iran-Arabia
Saudita e gli effetti collaterali che essa ha sui rapporti tra i
paesi occidentali e Teheran, lo Stato Islamico ha dato nuovo spazio
alla questione curda, in quanto gran parte delle formazioni politiche
e militari curde dell’area, distribuite in Iran, Iraq, Siria e
Turchia, hanno contribuito in misura diversa ma assai spesso decisiva
a rallentare o bloccare l’avanzata dello Stato Islamico verso
Baghdad e verso il confine turco. Purtroppo, è chiaro che non tutti
i governi degli stati appena nominati possono essere facilmente
indotti a rimettere in discussione le proprie posizioni su tale
questione: se per la stessa Baghdad la regione irachena a maggioranza
curda, già largamente autonoma, resta d’importanza vitale per la
sopravvivenza del paese, la vita politica turca e iraniana non
potrebbe che venire pericolosamente destabilizzata se l’opzione
della costruzione di uno stato nazionale curdo indipendente
acquisisse consistenza.
Osservando
la crisi nelle varie prospettive emerse dalla relazione e dal
successivo dibattito, una prima conclusione è che essa non può
essere risolta se non attraverso il raggiungimento di un nuovo
equilibrio geopolitico del Medio Oriente, che si fondi senz’altro
sul riconoscimento della necessità di un dialogo paritario e
permanente tra i quattro maggiori attori regionali: Iran, Turchia,
Israele e Arabia Saudita. Se, poi, questo equilibrio non dovesse
risultare accessibile senza passare per una riforma radicale delle
carte geografiche, non dovrebbero essere considerate del tutto
fantascientifiche né l’opzione di un nuovo stato arabo sunnita
che, auspicabilmente, prenda il posto del califfato di al-Baghdadi,
né, soprattutto, quella di uno stato curdo indipendente. Simili
operazioni implicano l’intervento diretto, o quantomeno il sostegno
sostanziale, di paesi occidentali che siano in grado e insieme
abbiano la volontà politica di dispiegare la forza politica e
diplomatica necessarie allo sviluppo di una soluzione per la quale,
probabilmente, non sarà possibile fare a meno di tenere in
considerazione l’opinione del Cremlino, vista in occasione della
crisi siriana del 2013 la capacità che esso ha di influenzare il
corso degli eventi in Medio Oriente.
Al
momento, Washington da sola non è in grado di assumersi tale
compito: la comprensibile reticenza a schierare nuovamente in Medio
Oriente quelle fanterie che soltanto potrebbero stroncare
lo
Stato Islamico e la relativa indefinitezza delle regole d’ingaggio
della coalizione di stati arabi e occidentali varata a metà
settembre, per cui rimangono intatti tutti gli orientamenti
particolari anche se tra loro incompatibili, ne sono un chiaro
sintomo. Poiché, peraltro, gli equilibri mediorientali sono in
ultima analisi equilibri mediterranei e dunque europei – basti
pensare alla questione dell’immigrazione, che lo stato delle cose
nel Levante aggrava ulteriormente – dovrebbe essere l’Unione
Europea a impegnarsi direttamente nella risoluzione della crisi del
Medio Oriente, dispiegando in modo univoco e unitario la propria
forza, in primo luogo attraverso i canali della diplomazia. Infatti,
solo ponendosi quale attore unico, trascendendo gli interessi
geopolitici dei singoli membri, l’Unione avrebbe la forza
necessaria a contribuire efficacemente al discorso diplomatico che,
soprattutto, dovrebbe condurre alla normalizzazione delle relazioni
tra paesi occidentali e Iran e, dunque, alla costruzione di un nuovo
equilibrio geopolitico in Medio Oriente.
Gioventù
Federalista Europea Firenze